L’energia è misurata in kilo joule per grammo, il cosiddetto potere calorifico, cioè il calore rilasciato dalla combustione di una quantità specifica di combustibile. Per 1g di benzina, ad esempio, tale potere è pari a 47,3 kJ e per 1g di gasolio a 44,8 kJ.
Il calore rilasciato dalla combustione di un grammo di polietilene (PE) è di 44,6 kJ mentre quello rilasciato dalla combustione della stessa quantità di polipropilene (PP) è di 42,7 kJ.
Come si vede PE e PP sono una fonte di energia buona quanto un combustibile tradizionale e di sicuro migliore del carbone (31,4 kJ/g), ma al di sotto del potere calorifico del metano (52 kJ/g) e ben lontano da quello dell’idrogeno (130 kJ/g).
Restando nell’ambito dei rifiuti plastici misti, alcuni studi hanno confermato che la maggiore quantità di energia si sviluppa bruciando PE e PP. Gli studi inoltre hanno anche evidenziato che questi polimeri tradizionali, di natura “fossile” e che secondo la vulgata non sarebbero biodegradabili, dovrebbero essere riciclati quando e quanto più possibile.
Diciamo meglio: esiste evidentemente una convenienza innegabile a “bruciare” direttamente questi rifiuti e recuperare così il loro credito energetico, ma secondo alcuni studi LCA* , prima di produrre ulteriore CO2 dalla loro combustione, converrebbe allungare la vita di queste plastiche tradizionali attraverso operazione di riuso e riciclo.
Sappiamo bene che, quando parliamo di riciclo, la maggior parte delle persone pensa a un ciclo virtuoso ed ideale nel quale la plastica raccolta in modo differenziato venga ulteriormente suddivisa tra PE, PP, PET, PVC, PA, PS, PA, PC,…PLA, PHB etc…
Ehi, un momento? E tutte queste altre sigle a quali plastiche si riferiscono? Perché all’inizio parliamo solo di PP e PE e poi vengono tirate in ballo tutte queste altre plastiche?
Lo facciamo solo per dire due cose: 1) queste altre plastiche non sono così ben disposte nei confronti dell’ambiente quando vengono bruciate e 2) inoltre hanno potere calorifico inferiore al PE e al PP.
A questo va aggiunto che vengono usate in percentuale molto più basse del PE e del PP.
Parliamo però per un attimo di poliidrossibutirrato (PHB) e acido polilattico (PLA), cioè delle plastiche considerate effettivamente biodegradabili. Questi materiali hanno avuto un successo limitato, ma il loro principale punto di forza è la natura green (cosa però che non risulta univocamente verificata, secondo le usuali analisi LCA) che le renderebbe compatibile con e sostenibili per l’ambiente.
All’intervento di apertura di una conferenza a Stoccolma sui polimeri biodegradabili, il professor Norman Billingham , un’autorità nel settore della degradazione e stabilizzazione dei polimeri, ha esordito dicendo:
«la biodegradazione della plastica tramite compostaggio equivale a rilasciare tutta la CO2 senza recuperare l’energia. La plastica può essere sostituita, riutilizzata, riciclata o bruciata per recuperare il calore: la biodegradazione aerobica dovrebbe essere l’ultima risorsa».
A questa osservazione del professor Billingham ne aggiungiamo un’altra: qualunque plastica sia essa di origine fossile (p.es. PE e PP) che di origine rinnovabile (p.es. PHB e PLA) per poter essere propriamente utilizzata per le svariate applicazioni, necessita di un pacchetto di additivi ad hoc che ne inibiscano o ne rallentino la degradazione proprio per garantire stabili caratteristiche fisico meccaniche necessarie al loro uso.
Questo per dire che durante un processo biodegradante (che riguarda tanto il PLA quanto il PP!) il pericolo potenziale non è dato dalla struttura in sé del polimero ma da quello che viene rilasciato (e che si trasforma) durante il processo di biodegradazione.
Come sappiamo PE e PP si producono partendo dalla virgin nafta opportunamente trattata per ottenere i monomeri (etilene e propilene) che verranno successivamente polimerizzati per dar vita a un tipo di plastica che risulterà essere anche riciclabile e riutilizzabile più volte.
Al termine del ciclo di… vite sia il PE che il PP potranno essere termovalorizzati restituendo, come abbiamo detto all’inizio, rispettivamente 44,6 e 43,7 kJ di calore per ogni loro grammo.
I biopolimeri, invece, sono destinati a degradare lentamente nel terreno, rilasciando così i loro additivi, sprecando tutta la loro energia e restituendo, lentamente, CO2 all’ambiente.
Ma oggi prima di passare a questo recupero energetico, attraverso la termovalorizzazione, possiamo sfruttare un processo ben noto in grado di riportare sia il PE che il PP al loro stato gassoso o liquido cioè agli elementi di base che li costituiscono.
La pirolisi è un processo di conversione termica delle sostanze organiche che avviene utilizzando un catalizzatore in assenza di ossigeno.
La pirolisi si presenta come una soluzione intermedia al problema di smaltimento dei rifiuti plastici, perché essendo assimilabile ad un cracking termico, porta alla rottura dei legami del polimero di partenza, con conseguente formazione di sostanze più semplici, che possono essere il monomero da cui il polimero è stato sintetizzato o anche altre sostanze di interesse industriale, come ad esempio frazioni di paraffine da cui si ricavano benzina, kerosene e carburante diesel, idrocarburi aromatici, oli lubrificanti e cere.
Importante per un’applicazione commerciale della pirolisi è valutare il tipo e la quantità di prodotti di reazione che possono variare fortemente in base alle condizioni di reazione (tempo di reazione, pressione, temperatura, massa del reagente).
Si comprende che questo tipo di processo è in grado di produrre da rifiuti plastici, nel nostro caso PE e PP, quel tipo di materia prima, la virgin nafta, necessaria ad avviare la filiera petrolchimica: la novità importante è che per farlo non si deve necessariamente partire da una fonte fossile (petrolio greggio) – e dunque, secondo la tassonomia codificata, fonte non rinnovabile – ma da una fonte addirittura quotidianamente rinnovabile, quale la frazione di rifiuti plastici che viene prodotta nelle nostre città.
Paradossalmente all’interno della tassonomia proposta dall’Unione europea, insieme alle fonti rinnovabili individuate (Gas Naturale Liquido e Nucleare) si potrebbe aggiungere: Rifiuti Plastici.
E pensare che per fare questo basterebbe così poco. Basterebbe, ad esempio, restituire alle parole “biodegradazione”, “verde”, “rifiuto” etc… il loro reale significato. O basterebbe riconoscere alla “plastica tradizionale” il suo reale statuto civile e l’importanza che essa ha avuto e ha nella nostra quotidianità. Basterebbe cominciare a riconsiderare nuovi usi di questo “vecchio” materiale per la produzione di materie prime tradizionali utilizzando, tra l’altro, antiche funzioni come un vecchio cracking appena chiuso.
Anzi osiamo affermare che basterebbe ancora meno: sarebbe sufficiente che un Ministro della transizione energetica o qualche Politico locale, ben informato e bene avvertito dalla storia del petrolchimico ferrarese, promuovesse i rifiuti plastici allo stato di fonte energetica rinnovabile.
*LCA Analisi del ciclo di vita” (LCA, in inglese Life Cycle Assessment), uno strumento per riconoscere cosa sia veramente “verde”. L’ analisi prende in considerazione ogni elemento della realizzazione di un prodotto: materiali grezzi, energia, rifiuti, sottoprodotti, trasporti, smaltimento, e così via. La LCA mostra quale sia il prezzo che l’ambiente deve pagare per ogni prodotto specifico.